15 marzo 2011

La festa della decrescita - di Paolo Cacciari

La giornata di lavoro sulle “buone pratiche”, per come è stata preparata attraverso le schede di autopresentazione (un vero scrigno di idee), per il metodo coinvolgente che è stato seguito con gli otto laboratori e la restituzione dei risultati in plenaria, per la vastissima partecipazione, costituisce una novità importante, non solo per il Friuli Venezia Giulia. 
L’obiettivo di mettere in relazione la galassia di esperienze in atto di socializzazione del vivere è stato raggiunto. E’ iniziato un lavoro di autoinchiesta e di mappatura che potrebbe già condensarsi in una edizione di “pagine arcobaleno” (così come sono state chiamate in Trentino, a Reggio Emilia e in altre città italiane) dell’economia e dei servizi solidali, cooperanti, sostenibili. Una carta geografica del nuovo FVG che vuole vivere in modo diverso, più ricco di relazioni umane, più consapevole e solidale.

Le esperienze concrete in atto hanno messo a dura prova le “8 R” di Serge Latouche. Le “r” si sono moltiplicate – come lui stesso auspica – e vi è stato bisogno di ricorrere anche ad altre lettere dell’alfabeto: A, come armonizzare, B e C, come beni comuni, D, come donare… S, come simpatizzare… Z, come zeri: rifiuti, emissioni, esternalità negative.
Come è stato ricordato il prefisso reiterativo “ri/re” indica una ricorsività: fare/rifare, spingere/respingere. Evoca l’idea del life cycle che regola ogni processo naturale; indica l’azione necessaria per “chiudere il cerchio” della vita, per restituire ciò che abbiamo utilizzato e preso in prestito. Un movimento costante, una rivoluzione, per l’appunto, che è culturale, economica, sociale, scientifica, istituzionale, antropologica. Individuale e sociale; materiale e cognitiva. Perché la decrescita è una direzione di marcia che va praticata, non enunciata. Non è una nuova ideologia, nemmeno una teoria generale che pretende di stabilire quanto grande e luminoso sarà il “sol dell’avvenire”. La decrescita è davvero solo un movimento concreto, misurabile passo dopo passo, verificabile individualmente e socialmente. 

Noi sappiamo che è “necessaria” (come è scritto nel documento della ResFVG che convoca questa iniziativa) per evitare all’umanità le gravissime crisi sociali, ambientali, economiche che stiamo attraversando, ma sentiamo anche che è auspicabile e che dovrebbe diventare desiderabile. In fin dei conti è sempre la aspirazione allo stare meglio, la ricerca del buen vivir, della jouà de vivre, della felicità che spinge ogni essere umano ad agire e a tentare di cambiare. 

La decrescita, quindi, è un atto di “rottura dell’ordine simbolico e fattuale” (come diceva Cornelius Castoriadis), si declina attraverso le esperienze, le sperimentazioni concrete di socializzazione, di ricostruzione di un fare consapevole e responsabile. L’economia sociale, equa e solidale, alternativa e sostenibile, relazionale , orizzontale, inclusiva, comunitaria, civile, “sostanziale”… (chiamiamola come vogliamo) è contigua alla decrescita. Ha scritto Latouche: “In ogni caso, il progetto di buona economia, se portato avanti seriamente, apre prospettive che non possono non interessare il sostenitore della decrescita e arricchire il suo progetto” (Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, 2011).

Lo scorso anno è stato il centenario della morte del grandissimo Leo Tolstoj che amava affermare: “Fa quel che devi, accada quel che può”. Come dire: siamo mossi da una scelta etica, interiore, dobbiamo contare sulle nostre forze, sulla nostra capacità di discernere il bene dal male senza avere alcuna garanzia anticipata del risultato che otterremo. Nessuna teoria generale può assicurarci un avvenire sicuro. Anzi, dovremmo diffidare da coloro che pretendono di avere in tasca evoluzioni lineari e predeterminate. Una signora che è intervenuta in un laboratorio ha detto: basterebbero pochi valori chiari di riferimento capaci di regolare il vivere assieme. Io sono sicuro che noi questi valori noi li abbiamo individuati e che cerchiamo di seguirli. Ma il problema che abbiamo di fronte è duplice: come consolidare le nostre buone pratiche, senza chiuderci in tanti piccoli conventi; b) come espanderle, sapendo che viviamo in un ambiente ostile che non lascia spazi per l’autonomia e l’autogoverno. E non si tratta solo di condizionamenti mentali: spesso, burocrazia statale e finanziarizzazione economica soffocano anche le esperienze più valide.

Dovremmo prendere in mano gli studi sulla gestione collettiva dei beni comuni della Elison Ostrom (premio Nobel per l’economia 2009) per spiegare ai nostri governanti che spesso le gestioni comunitarie sono non solo più democratiche ma anche più efficienti ed efficaci nel creare e distribuire equamente ricchezza. Così come dovremmo prendere in mano il rapporto Stiglitz sul Pil definito “misura sbagliata delle nostre vite” (edizioni Etas) per spiegare al mondo degli affari che l’ossessione per il profitto e l’accumulazione monetaria ci sta portando non ad aumentare la ricchezza per tutti, ma alla all’autodistruzione. 

Ma non basta migliorare e consolidare i nostri Gas, le banche del tempo, l’uso dei software liberi, i sistemi di scambio locale, le filiere corte, i last minute market, gli orti urbani, il fair trade, le Mag, le monete locali, la mobilità condivisa, il cohausing, gli eco villaggi, i green public procurement, le transitinon towns, la raccolta differenziata, il vegetarianesimo, i trustee fiduciari, gli usi civici… fino alle (ancora pochissime, però) esperienze di vera cooperazione e autogestione delle produzioni. E’ necessario rivolgere lo sguardo e l’interesse a chi è ancora prigioniero dell’immaginario della crescita, omologato nei comportamenti consumistici, incapace di sottrarsi all’eteronomia totalizzante del mercato. Per riuscirci – come è stato più volte affermato – è necessario che ogni gruppo del mondo dell’altra economia e della solidarietà riesca a fare un doppio movimento: da un lato uscire dall’autoreferenzialità a cui spesso porta il sapere di “sapere far bene” (dobbiamo liberarci da ogni presunzione di superiorità verso chi non sa o non c’è ancora arrivato, svestirsi da ogni atteggiamento aristocratico, non siamo l’espertocrazia dell’etica) e, dall’altro lato, mettersi in rete, creare sinergie, colleganze, prendere parola nella società, confrontarsi con le istituzioni.

Il valore pedagogico dei buoni esempi è forte, ma non scatta automaticamente. Dovremmo cercare di essere molto più umili e non perdere il contatto con il mare grande dentro cui è immersa l’umanità. Per “diventare maggioranza” (e solo così, in realtà, potremmo sperare di salvarci) dovremmo comprendere le ragioni profonde che portano gli esseri umani a farsi schiavi inconsapevoli, ma più spesso volontari, di un sistema che produce dosi sempre maggiori di infelicità, angoscia, insicurezza, precarietà, psicopatie. Lo scorso anno, nel pieno della più grave crisi economica dal 1929, sono diminuiti i consumi di frutta e verdura, ma non quelli per i telefonini. Per le famiglie diventa più “facile” risparmiare sul “necessario” che non sul “superfluo”. Ma chi decide cosa è necessario e cosa superfluo? In realtà ci dimentichiamo che i bisogni sono correlati ai desideri e tutti (sia quelli dettati dalle necessità biologiche, sia quelli immaginati, sia il “pane” che le “rose”) sono sempre socialmente determinati. Pensiamoci: se fosse dipeso solo dal “benessere materiale”, in Russia ci sarebbe ancora l’Unione sovietica, visto che oggi la stessa aspettativa di vita media è diminuita spaventosamente. In realtà nella scala di valori necessari al nostro immaginario anche avere la libertà di scegliere, comunicare e muoversi liberamente, far festa, giocare e, in qualche misura, avere un’eccedenza da poter sprecare, sono necessità fondamentali per dare un senso alla vita, per superare una condizione di mera sopravvivenza, che è la peggiore delle esistenze possibili.

Sarebbe paradossale che proprio noi, i portatori del pensiero più “anti-economico” che vi sia (la decrescita, appunto), dovessimo sostenere le ragioni del nostro pensiero utilizzando gli argomenti dell’utilitarismo e dell’economicità. La decrescita non è “risparmio” in nome di una maggiore produttività, nemmeno lotta allo spreco in nome di una maggiore efficienza. Non è una questione (solo) di misura, di scala, di equilibrio… ma di indicatori diversi, perché abbiamo bisogno di misurare valori incommensurabili (pensiamo solo al concetto di “sufficienza” quali e quante implicazioni soggettive necessita per definirlo) con gli strumenti che usa correntemente chi ci governa: valori relazionali, estetici, spirituali. Non tutto è quantificabile e, soprattutto, non tutto è quantificabile con il denaro. Quanto vale l’ultimo albero dell’ultima foresta? E la fiducia reciproca? E l’amicizia, in quale banco del mercato la si vende? Siamo sicuri che la coesione sociale sia possibile mantenerla con la retorica nazionale tanto al chilo ogni anniversario dell’Unità d’Italia? Quanti altri esempi (a partire dalla istruzione e dalla salute) potremmo fare di beni e servizi che andrebbero scorporati e resi indipendenti dai sistemi regolatori del mercato e del denaro?

C’è una irriducibilità alla logica del mercato di alcuni valori che riteniamo costituenti di una società civile. 
La decrescita la vogliamo per vivere meglio, per migliorare le condizioni materiali e psichiche. Quindi non è “rinuncia” a nulla che ci serve, anzi, è nuove acquisizioni. Non è impoverimento, ma arricchimento personale e collettivo. Non è conservazione, ma cambiamento e innovazione, rifinalizzazione della scienza e della tecnica per “economizzare il tempo di lavoro e il dispendio di energie necessarie al fiorire della vita” (André Gorz)..
In attesa e in preparazione di questo grande processo di trasformazione, dobbiamo quindi essere non solo indulgenti, ma capaci di capire che quella cultura consumistica - che giustamente critichiamo - in realtà copre bisogni profondi. E’ ad essi che noi dovremmo riuscire ad offrire una alternativa, se non vogliamo che la decrescita sia un modo di vita valido solo per esseri umani perfetti, per asceti, per i “dodicimila santi per ciascuna generazione” (il massimo numero possibile di seguaci di Cristo che Dostroevskij fa dire al Grande inquisitore, in un passo de I fratelli Karamazov, magnificamente commentato da Franco Cassano in: L’umiltà del male, Laterza, 2011).
La penna biro che faceva andare in visibilio i ragazzi nei paesi del “socialismo reale”, l’automobile per i cinesi, gli ipermercati outlet da noi... coprono – in luoghi e tempi diversi - un bisogno di riconoscimento sociale e di relazioni che va intercettato e soddisfatto in altro modo. Se ci fermiamo solo a criticarlo, a criminalizzarlo, a esorcizzarlo… non riusciremo mai ad allargare il nostro piccolo mondo virtuoso. Come diceva madre Teresa di Calcutta: “non serve imprecare contro l’oscurità, accendiamo una candela!”.

La decrescita è un’azione, assieme e contemporaneamente, di decolonizzazione dell’immaginario, di smaterializzazione dell’economia, di demercificazone della società, di destrutturazione degli apparati istituzionali funzionali alla crescita… attraverso cui incunearsi e far spazio ad altri valori di riferimento: relazioni umane fiduciarie, auto-organizzazione (empowerment, ricordava Blasutig), partecipazione, cooperazione, condivisione, reciprocità, cura, affettività, creatività…

Io penso che noi dovremmo avere più coraggio nel proporre ciò che facciamo e nell’allargare il cerchio delle solidarietà, più consapevolezza del fatto che quello che facciamo è importante davvero e rappresenta l’unica via di uscita dalla decadenza e dalla crisi di civiltà che attraversiamo.
Dovremmo riuscire a mettere tutti i nostri piccoli, malformati, spigolosi, incasinati ma coloratissimi e trasparenti frammenti di buone pratiche dentro un caleidoscopio e farli girare in continuazione offrendo al mondo immagini meravigliose di futuro.

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